Piccole Riflessioni sull’Ascolto
Un disco su quattro non ce la fa. Non arriva nei negozi, non viene ascoltato da nessuno, viene fatto a pezzetti e riciclato: avrà una seconda possibilità. La Phono Press di Settala, non lontano da Milano, è l’ultimo posto al mondo dove ci si aspetterebbe di apprendere una lezione di vita, e invece di sorprese ne riserva parecchie. La prima è proprio che esista, che sia in attività, che qualcuno ci lavori. Dall’esterno, infatti, il capannone sembra abbandonato: scritte sbiadite, erbacce, un silenzio inquietante sotto il sole estivo. Ma all’interno sono in sei o sette, e anche due donne.
Abbiamo letto e scritto del vinile che torna, di giradischi, di musicisti giovani che pubblicano 33 giri nonostante Spotify e YouTube: ma alla Phono Press non hanno mai smesso dall’inizio degli Anni Ottanta, come spiega il presidente Filippo De Fassi Negrelli. «Da 20.000 dischi al mese nel 2010, quando ho rilevato l’azienda, siamo arrivati a produrne circa 60.000 l’anno scorso». E questa è un’altra lezione: non arrendersi a chi dice che il futuro va altrove, ieri il cd, oggi gli Mp3, domani i master hi-res.
I numeri
Il vinile rappresenta il 6% del mercato discografico italiano (circa 10 milioni di euro su 149 milioni di fatturato nel 2016): una fetta piccola ma che dal 2012 a oggi è cresciuta del 330%. «Anche in Italia sembra essere tutt’altro che un fenomeno di nicchia, con acquirenti di tutte le età, tanto che lo scorso anno abbiamo lanciato una classifica dedicata per il vinile», dice Enzo Mazza, presidente della Fimi, Federazione Industria Musicale Italiana. A livello globale, Deloitte prevede che nel 2017 si venderanno circa 40 milioni di copie (erano meno di 4 milioni nel 2005); non è un caso se Sony ha appena annunciato che riaprirà uno stabilimento per la produzione di dischi vicino Tokyo.
Appesi come santini alle macchine vecchie di decenni, alla Phono Press ci sono i 45 giri di Vasco Rossi, Renato Zero, Guè Pequeno; sparsi negli archivi gli ellepì di Ramones, Clash, Banco, Motörhead e altri. Si vede una scatola piena di Tra le Granite e le Granate, l’ultimo singolo di Francesco Gabbani, di un irreale color magenta trasparente. Questa è la sola fabbrica italiana dove si producono dischi in vinile dall’inizio alla fine, per grandi case discografiche ed etichette indipendenti. Si entra con il file audio o la bobina dello studio di registrazione e si esce con i dischi incellofanati e forniti pure di bollino Siae.
Il «biscotto»
Quei dischi di Gabbani non ce l’hanno fatta, spiega Davide Niero, 50 anni, perché hanno qualche difetto. Vengono controllati uno a uno dal suo occhio esperto e testati su un impianto audio di qualità medio-bassa. «Non da audiofili, perché quelli sono pochi, a noi interessa che un disco si senta bene anche con uno stereo normale». Niero, originario di Venezia, prima di stamparli, i dischi li suonava, come deejay. Analogico contro digitale vuol dire che si può controllare ogni fase della lavorazione con strumenti di precisione ma tutto sommato semplici: guardando al microscopio i solchi dell’acetato, Niero capisce che tipo di musica possono nascondere. «Questo è un pezzo house, questa è musica classica», dice, e non sbaglia mai.
L’acetato viene ricoperto di un sottilissimo strato di argento poi immerso due volte in una soluzione contenente nickel. Dopo qualche ora ne esce la matrice per stampare i dischi veri e propri. Ha i solchi al contrario, in rilievo anziché scavati, e ne servono due, una per lato, massimo 25 minuti di musica. Sono sistemate sulla pressa, mentre con un secchio si caricano i granelli di vinile, nero o colorato. Il calore lo scioglie e ne fa una massa compatta («biscotto» o «polpetta»), che viene schiacciata a 110 tonnellate di pressione; poi si sistemano le etichette, non incollate ma saldate al vinile. Per stampare un album ci vogliono 30 secondi e ogni passaggio è manuale. Dopo i controlli c’è l’imbustatura, il confezionamento, quindi i dischi vanno sistemati nelle scatole e partono verso i negozi di tutto il mondo. Portando con sé non solo la musica, ma anche la passione di chi li ha fatti nascere.
Bruno Ruffilli
via La Stampa